Medicina

I Mini-Cervelli, la medicina del futuro è oggi

di Redazione

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Cellule staminali, medicina rigenerativa, riprogrammazione e modellazione in vitro delle malattie neurologiche: abbiamo intervistato Cecilia Laterza, neuroscienziata del Veneto Institute of Molecular Medicine Home, per farci raccontare il suo lavoro di ricerca sui “mini-cervelli”.


Innanzitutto, cosa sono questi “mini-cervelli”?
«Sono strutture tridimensionali che racchiudono le caratteristiche principali di un cervello, sia per quanto riguarda la tipologia di cellule, sia la loro organizzazione. Infatti, in laboratorio riusciamo a sviluppare degli organi rudimentali molto più avanzati rispetto a una normale coltura cellulare; ovviamente hanno delle imperfezioni rispetto a quelli naturali, ma ne ricordano la composizione, la struttura e in parte anche la funzione. Seguo principalmente due progetti accomunati dall’utilizzo di questi mini-cervelli.


Per crearli, preleviamo dai pazienti alcune cellule differenziate dalla pelle, dal sangue o dall’urina, le facciamo ringiovanire fino a tornare a uno stato pluripotente simil-embrionale in un processo chiamato riprogrammazione, e poi le differenziamo perché si sviluppino nell’organo di nostro interesse. Così possiamo generare questi organoidi di cuore, fegato o, nel nostro caso, cervello, con un background genetico identico a quello del paziente».


Ha menzionato due progetti, ce ne può parlare?
«Il primo progetto riguarda lo studio di una malattia del neurosviluppo chiamata sindrome dell’X Fragile. Le malattie del neurosviluppo sono molto complesse da studiare sull’uomo poiché il cervello è un organo per molti aspetti inaccessibile, ancor di più durante lo sviluppo embrionale. Grazie a questa tecnologia, possiamo far sviluppare in vitro le cellule pluripotenti ottenute dai pazienti in mini-cervelli, e possiamo osservare tutte le fasi dello sviluppo e studiarne il comportamento nel contesto della malattia di interesse. Così, siamo in grado di individuare target terapeutici e di testare farmaci in un sistema in vitro completamente umano che molto si avvicina al cervello del paziente stesso. Inoltre, dal punto di vista etico, questo ci consente di non sperimentare né su cellule embrionali umane e né su modelli animali.


Il secondo progetto si basa sull’uso degli organoidi di cervello, come pezzi di ricambio nel caso di danni al cervello stesso. Stiamo studiando una strategia per guidare l’integrazione di questi organoidi con le cellule nervose dell’ospite utilizzando biomateriali fotosensibili. In particolare illuminando il nostro biomateriale con un certo tipo di luce attraverso i tessuti in vivo, possiamo creare delle guide per far crescere i nostri organoidi e favorire la connessione con le cellule adiacenti dell’ospite, permettendo quindi di ripristinare le funzioni perse dall’area cerebrale colpita dal danno».


Quanto tempo ci vorrà prima che questa ricerca trovi un’applicazione?
«L’orizzonte temporale è qualche decina di anni. La ricerca sta andando a una velocità stratosferica: più la ricerca progredisce in tutti i campi, più sarà veloce anche la nostra».


I “mini-cervelli” che realizzate in laboratorio, pensa possano essere mezzo di studio anche per ricerche di altro settore, come, ad esempio, gli esperimenti condotti da Neuralink per connettere il cervello al computer?
«La possibilità dal punto di vista tecnico probabilmente c’è, bisogna capire quale sia l’utilità e l’uso che ne verrebbe fatto. Le reti neurali connesse al computer e le intelligenze artificiali sono tutte realtà che si stanno sviluppando tantissimo e gli organoidi, considerando la capacità di creare anche strutture proprie del cervello, sono sicuramente uno strumento interessante di avanzamento rispetto alle normali colture di neuroni.


Fortunatamente, esiste un processo decisionale controllato e rigoroso che tutela la ricerca: tutti gli esperimenti devono passare prima da un comitato etico che ne valuta la fattibilità e le possibili ricadute. Questi controlli impediscono che vengano sviluppate tecnologie dai risvolti fantascientifici, le cui derive potrebbero essere ignote o incontrollabili».


Nei suoi studi lei utilizza competenze di biologia associate ad altre di ingegneria: in che modo? Quanto è necessario che, in fase di ricerca, discipline diverse vengano a sostegno l’una dell’altra?
«Al VIMM di Padova, e in particolare nel laboratorio in cui lavoro, l’interdisciplinarietà è fondamentale: nello stesso laboratorio lavorano fianco a fianco biologi, ingegneri, biotecnologi, chimici, fisici, un mix di competenze completamente diverse. La mia formazione è biologica, specializzata nel campo della medicina rigenerativa per malattie del sistema nervoso e della terapia cellulare finalizzata al ripristino delle funzioni cerebrali perdute.


Per i progetti su cui stiamo lavorando, in cui dobbiamo cercare di modellare in vitro, ad esempio, patologie dello sviluppo, è fondamentale avere persone competenti di biologia dello sviluppo, di biologia della malattia stessa, ma anche professionalità che riescano a immaginare la tecnologia che dia il supporto tecnico necessario per risolvere le domande biologiche. Lavorare tutti insieme è un valore aggiunto che accresce la qualità della ricerca stessa, purtroppo i laboratori che riescono a richiamare competenze e professionalità così diverse sono molto rari. È, comunque, un’esperienza divertente e stimolante, perché apre la mente a punti di vista e approcci a cui non avresti mai pensato».


Lei ha svolto anche un periodo di ricerca all’estero. Professionalmente e umanamente parlando, cosa si porta dietro da questa esperienza?
«Tutti dovrebbero fare un’esperienza all’estero per sfatare i dogmi che ognuno di noi si porta dietro dalla propria cultura, riconoscendo e apprezzando ancor di più quanto c’è di buono e quanto si possa migliorare. Dalla Svezia, ad esempio, ho riportato a casa il saper organizzare la propria giornata e il saper bilanciare la vita privata e quella lavorativa.


Inoltre, ho imparato moltissimo sia dal punto di vista accademico che tecnico: ho, infatti, avuto accesso a strumentazione all’avanguardia. La ricerca, nel nostro Paese, compie uno sforzo enorme per stare al passo e, spesso, anche un passo avanti agli altri, nonostante gli investimenti nella ricerca non siano ancora comparabili a quelli degli altri Paesi».


Quanto è importante confrontarsi con altre realtà in ambito scientifico?
«Per i ricercatori mobilità è all’ordine del giorno poiché è un lavoro che si basa molto sulle collaborazioni tra diverse competenze. Ciò che stupisce è che, normalmente, pensiamo di condividere con i nostri colleghi un percorso simile; invece, viaggiando si scopre quanto siano diversi i percorsi che abbiamo seguito per poi arrivare ad essere scienziati: ad esempio, un mio collega svedese è stato DJ a Ibiza per 10 anni prima di iniziare il dottorato, altri sono arrivati da profughi in fuga dalla guerra, ma alla fine quando eravamo in laboratorio eravamo tutti accomunati dalla passione per la scienza. Quello che mi piace di questo lavoro è anche il fatto che non importa di che nazionalità sei, di che religione o orientamento sessuale, quello che importa è quello che studi e la serietà con cui lo fai».


Cosa serve per diventare ricercatore?
«La ricerca non è un lavoro per tutti: ancor più della passione, per sopportare il carico di lavoro e, a volte, la frustrazione, sono fondamentali la determinazione, la perseveranza e la costanza. Noi ricercatori passiamo tre quarti del nostro tempo a cerca di capire perché non funziona qualcosa e un quarto a raccogliere i risultati di un esperimento riuscito.


Poi, più si progredisce con la carriera, più aumentano e si diversificano le cose da fare e, con esse, le ore di lavoro: quando sei un dottorando il lavoro è portare avanti il proprio progetto, quando si diventa più senior si aggiunge la parte gestionale, tra finanziamenti e organizzazione del team. Senza dimenticare che, dal punto di vista della stabilità lavorativa, si va avanti a progetti e contratti della durata di uno o due anni, nonostante, come nel mio caso, si siano ottenuti finanziamenti e riconoscimenti importanti».


Donne e ricerca: qual è il suo punto di vista e, soprattutto, cosa consiglia alle più giovani?
«Non demordere mai perché sicuramente la nostra preparazione e la nostra determinazione è pari se non superiore ai nostri colleghi uomini. L’essere molto precise e autocritiche non deve essere un freno: anche se a volte ci fa sentire meno sicure, non deve impedirci di buttarci, non deve mettere in dubbio la nostra competenza.


C’è, però, ancora strada da fare: in un laboratorio di ricerca il 90% sono donne e ragazze, quando poi si entra all’interno degli uffici dei professori la percentuale si inverte drasticamente. Questo però può essere un segno di speranza perché tante di quelle donne che ora sono in laboratorio speriamo arrivino nel prossimo futuro a ricoprire posizioni apicali.


Tuttavia, bisogna considerare che il momento in cui ci si vuole affermare nel mondo della ricerca spesso coincide con il momento in cui si desidera creare una famiglia e riuscire a conciliare la competitività di questo mondo con gli impegni famigliari può diventare un blocco, in particolare per le donne. Però si può superare, seguendo l’esempio dei Paesi nordici, dove, sia nel mondo lavorativo che nei ruoli familiari, vige molta più equità. Tanto che non esiste il permesso per maternità, ma il parental leave, che consente a entrambi i genitori di dedicare il giusto tempo alla famiglia».






Cecilia Laterza è una ricercatrice presso il Veneto Institute of Molecular Medicine (VIMM) di Padova. Ha studiato biotecnologie mediche a Padova e Londra e ha conseguito il dottorato di ricerca in cellule staminali applicate alle neuroscienze presso il laboratorio di neuroimmunologia dell’Università San Raffaele di Milano. Successivamente, ha trascorso più di due anni come post-doc presso l’Università di Lund in Svezia. Grazie ad una fellowship Marie Curie, è poi rientrata in Italia.

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